NEOSTOICISMO… MA QUALE?

Il Prof. Maurizio Ferraris, nel supplemento Domenica di Il Sole 24 Ore del 22 Marzo, a proposito dei progressi della scienza in ordine alla possibilità di prolungare la vita umana a centovent’anni, e della rimozione della morte nella società moderna, afferma la necessità di “una forma di neostoicismo”. E conclude la sua lezione con un esperimento mentale.

Immaginiamo qualcuno che ci offra l’alternativa tra; A: vivere sino a centovent’anni, in perfetta salute e giovinezza, una variante di Dorian Gray, ma essere dimenticati da tutti un secondo dopo la nostra morte, \e B: vivere sino a settant’anni, magari anche con degli acciacchi, ma in modo tale che tutte le nostre tracce (i ricordi che abbiamo lasciato di noi, i nostri eventuali scritti eccetera) sopravvivano per un tempo ragionevolmente lungo, anche se non necessariamente così lungo come quello che ci separa dal momento in cui la terra finirà dentro al sole, perché a quel punto avremmo a che fare con umanità troppo diverse da noi. Immagino che molti sceglierebbero, con me, la soluzione B. E credo che chi lo facesse avrebbe almeno in parte imparato a morire, cioè, forse, a vivere con filosofia.

Pienamente d’accordo sulla necessità di neostoicismo: nutro tuttavia qualche serio dubbio sul fatto che sia proprio la scelta dell’alternativa A a dimostrare di avere imparato a vivere, e morire, con filosofia…

Partirei dal presupposto che, dopo la nostra morte, il fatto di essere dimenticati o ricordati non sia in grado di recare, a noi che siamo veramente e definitivamente morti (oppure precisiamo – per non escludere tutti quelli che una fede in qualche vita post- od extra-terrena la rivendicano – morti almeno rispetto a una vita che in ogni caso sarebbe troppo diversa da quella successiva), né tormento né conforto di sorta.

Il desiderio di lasciare tracce che ci sopravvivano – e attraverso le quali sopravvivere come memoria e/o possibilità cognitiva in alcuni dei nostri simili per qualche tempo, non può che essere rivolto a procacciarci una gratificazione sino a che, e soltanto sino a che, siamo vivi (o quanto meno fino a che gli acciacchi non siano di quelli che giungono ad invadere essenziali funzioni cognitive né, in particolare, la cognizione di sé).

Naturalmente, tutto ciò nella fiducia che la tracce che lasciamo siano tracce mantenute e custodite di buon grado da coloro cui sono affidate (a meno di non essere tanto malvagi da desiderare che vi sia anche chi debba conservare queste tracce con grande pena nello spirito e magari anche nel corpo). Poiché difficilmente, penso, sia possibile essere certi di lasciare unicamente tracce “positive”, dobbiamo necessariamente cercare di rimuovere il pensiero delle altre.

In sostanza, cioè, il desiderio di lasciare queste tracce non può non essere diretto a soddisfare una qualche forma della nostra vanità. E dobbiamo anche poi saper sopportare con tranquillità il fatto che le tracce lasciate in coloro che più ci abbiano amati e più acutamente sentano la nostra mancanza, provochino per qualche tempo nelle persone amate sofferenza e dolore. Valutiamo, evidentemente, che il piacere della memoria delle nostre tracce valga, per loro,  la pena della separazione.

Anche sotto questo punto di vista, perciò,  stiamo sempre cercando di gratificare la nostra vanità di vivi.

E’ proprio un esempio di neostoicismo, questo atteggiamento:  davvero è così che si dimostrerebbe di saper morire – e quindi vivere – con filosofia?

L’alternativa A, certamente, come illustra il Prof. Ferraris, non pone al riparo da traumi e sofferenze anche notevoli (nonostante l’estrema ipotesi della giovinezza e salute fino all’ultimo): veder morire gli amici, persino i figli  – e magari qualcosa di più che limitarsi a vederli morire – non può non richiedere l’esercizio di una forza d’animo notevole.

E però. l’ipotesi di essere dimenticati un secondo dopo la nostra morte ci assicurerebbe che nessuno debba patire dolori e sofferenze per essere stato privato della nostra esistenza o per doverne ricordare le offese che attraverso di essa abbiamo, per malvagità o altra ragione, loro inferto.

Nei limiti in cui ci curiamo delle persone amate – e sappiamo pentirci del male, volontariamente o involontariamente arrecato anche a persone non amate – un’idea del genere potrebbe avere un suo aspetto gratificante: e gratificante, forse, verso la parte migliore di noi, quella sollecita del bene altrui – del bene generale, quello che sta a cuore dello stoico – ancorché a prezzo della nostra vanità o, comunque, del nostro desiderio di non essere del tutto morti.

Non può essere, allora, che proprio chi scelga questa alternativa pratichi meglio il neo-stoicismo necessario a questa nostra società, dimostri di saper morire – e quindi vivere – con filosofia?